IN VIAGGIO DA ROMA A FIESOLE CON CESARE  ZAVATITINI

UPIM 59

«Nel 1954 il famoso fotografo e cineasta americano Paul Strand venne a Roma da lontano e disse: facciamo un libro insieme? Lo abbracciai, lo portai a Luzzara, ve lo lasciai a lungo con i suoi occhi giusti e una macchina antica a treppiede...».
Questo è tutto quello che sappiamo dell’incontro di Cesare Zavattini con Paul Strand, ed è anche quello che più o meno mi ha ripetuto nel nostro incontro automobilistico da gran premio (Roma-Fiesole tre ore esatte), aggiungendo che si erano conosciuti ad un convegno cinematografico a Perugia, che aveva subito familiarizzato con lui, che c’era simpatia reciproca. «Un uomo semplice e di poche parole, voleva fare un libro con me sull’Italia, ma era un’impresa, allora pensai la cosa più ovvia di questo mondo: Luzzara! L’uovo di Colombo, ti pare? Lo portai là, gli feci conoscere un po’ di gente; entrammo in sintonia, poi è rimasto con loro "impaesandosi"».

Incontro tra Cesare Zavattini 
e Gianfranco Contini.
Fiesole, 11 Settembre 1983
Parlava con la solita vivacità, ma con voce non troppo alta; lui che scriveva: «abbiamo (noi luzzaresi) anche il vizio di parlare a voce troppo alta, da cui può darsi derivi l’illusione di sapere di più di quanto sappiamo».
Parlava dei suoi anni e dei suoi progetti, della realtà e degli acciacchi, inevitabili data la sua veneranda età, parlava della gente, dei bambini e degli anziani; “gente di condizione sociale modesta” ripetendomi più o meno una frase scritta anni fa sul suo secondo libro su Luzzara in collaborazione col fotografo Berengo Gardin, «rimasta tale anche in un simbolico gesto di attesa».
Io ero in crisi, un po’ il caldo ma soprattutto per queste frasi inevitabilmente subite come un pugile ormai alle corde.
Di Paul Strand ormai non si parlava più, io ogni tanto cercavo di sapere, gli chiedevo qualche notizia o aneddoto, ma non ne aveva; «è tutto, ci siamo rivisti qualche volta ma non c’è niente di più. Interessantissimi sono i suoi film che io ho visto a Parigi, dovremo riuscire a portare quelli in Italia». Poi, come sempre succede, abbiamo parlato di tante altre cose: del suo anno di militare a Firenze, alla Fortezza da Basso, di quando usciva fuori la sera e correva alle Giubbe Rosse; del suo rapporto con la poesia, con la pittura, con la narrativa, «forme che oggi non apprezzo molto», che ha però in progetto un Diario di un arteriosclerotico sottolineando che lui non lo è (lo si vede bene) e che con questo non vuole fare letteratura. Ho saputo anche che a suo tempo c’era stato un incontro con Herny Cartier Bresson con il quale avevano intenzione di fare un film.
Mi sono illuminato ed ho chiesto, brutalmente, notizie: «non puoi pretendere che mi ricordi tutto, cazzo! Te lo dico cosi, come mi viene in mente». Rispondo che glielo avevo chiesto solo perché l’idea mi affascinava. «Certo, caro, anch’io avrei fatto lo stesso».
Qualche pausa mentre l’auto corre veloce sull’autostrada, controlla spesso l’ora. Alle sedici in punto deve telefonare. Ha urgenza di sapere le vicende del suo film La Veritàaaa, che la sera stessa devono proiettare a Reggio Emilia alla festa dell’Unità. E quest’urgenza non è solo un fatto fisico, parla d’urgenza anche in senso filosofico, urgenza del rapporto tra pensiero e azione. «Lavorare con la gente subito», dove riaffiora inevitabilmente la più convinta delle sue convinzioni: che siamo tutti uguali! Da qui alla polemica con la cultura dei pochi il passo è breve. Mi viene ancora in mente l’introduzione a Un paese vent’anni dopo: « Secondo me ciascuno di noi è grande ma gli s’impedisce di manifestarlo in concreto. Non s’intenda per grandezza poemi, affreschi, statue, di ben altro abbisogniamo. Ma su di noi si sono accumulati secoli di cenere diventata dura. C’è da compiere una scrostatura che nessuno si prende la briga di compiere e gli stessi interessati finiscono con l’abituarsi a stimare più gli altri di sé, secondo il plagio compiuto a poco a poco appunto dalla cultura dei pochi. Che più che mai oggi combina orribili fatti e tuttavia non cede il campo, ha la vanità e la superbia di una volta guardandosi dall’attingere nuove forze nella massa e persistendo a trivellare nel suo gramo esausto e accidioso terreno però con dei grandi cartelli su cui si legge: stiamo sgobbando per tutti. E da tutti vogliono onore...».
Controlla ancora l’orologio, siamo ormai a 69 Km. da Firenze. «Sai - racconta ancora
è la scena dell’invasione della Rai che non hanno digerito. Quando uscì il film Il Popolo e Il Giornale di Montanelli si scagliarono contro, poi... pensa quando fu proiettato a Cosenza ci furono dei salti e delle oscurazioni a quella scena, non si vedeva bene, pensai ad un guasto tecnico, ad un caso. Poi a Gorizia la scena non c’era proprio. Allora non è più il destino! Mi dissi. Ora, chissà mai perché, da Milano lo hanno mandato a Roma ed è arrivato a Reggio Emilia solo stamani, devono visionarlo per vedere se manca la scena; sono ansioso di sapere». E’ importante la scena?  Gli chiedo. «Sì e no, ma non è per questo. Io non dico che il film è bello o brutto, dico che è un diritto di ciascuno mostrare interamente il suo lavoro. è una questione di principio, sono contro ogni forma di censura».  A questo punto ho un lampo di memoria e azzardo una frase che lui apprezza molto: «Vogliono svalutare gli uomini». Semplicemente mi ero ricordato una poesia del suo meraviglioso libro in dialetto luzzarese Stricarm’ in d’na parola (Stringermi in una parola), che in italiano recita:

Lei cosa fa di mestiere?
Svaluto gli uomini
È faticoso?
Macché. Lavoro anche le feste.

«È farina del tuo sacco, ricordi?». «Adesso che ci penso, sì mi hai fatto ricordare. Purtroppo è un mestiere ancora in voga, continuano a praticarlo in molti».
Alle sedici in punto siamo davanti al Comune di Fiesole e si rivolge a me ancora per un’urgenza: «Prima di tutto voglio pisciare». La qual cosa, al lettore malizioso, non appaia simbolica. Zavattini non piscia sui comuni, quantomeno non su tutti. Era realmente un’urgenza fisiologica. Chiama Reggio Emilia e mentre parla si avverte subito la sua disapprovazione, lancia qualche parola non proprio gentile ai distributori del film, nel suo tipico stile, non volgare, ma pungente ed esplicativo. Si capisce allora che il film è tornato a Reggio Emilia mutilato e lui dice che così evirato si rifiuta di presentarlo. «Spero nella vostra solidarietà - conclude con gli organizzatori della Festa dell’Unità - Evviva!!!»
Dispiaciuto dell’accaduto lo invito a rinfrescarsi a casa mia, dove prende volentieri una birra, anche se non potrebbe bere «Il medico me lo ha proibito - dice - ma come si fa è così buona... e poi è frescaaa».  Enfatizzando a modo suo l’aggettivo da capirne in pieno il significato. È ancora un po’ avvilito dalla vicenda del film, ma è più disteso si parla di cose caserecce, ed ancora dei suoi impegni, oggi qua, domani là, ecc... «È il mio modo di essere finché mi sento bene. Un giorno starò fermo e mi toccherà a dire, finalmente mi sento male».  Abbiamo un’ora buona a disposizione prima dell’inaugurazione della mostra di Paul Strand e vuole vedere Fiesole. Lo porto su per via Verdi, (panoramica) e, se per la birra di prima aveva esclamato dei passionali oooh!, non vi dico quando ha visto quelle splendide strade e quello stupendo panorama. Sei o sette oooh! tutti d’un fiato. «Non c’è tregua, è una visione dopo l’altra, un susseguirsi di immagini che mi riempiono gli occhi. E il Duomo, dov’è? - glielo indico nonostante un po’ di foschia - Bello, bello! Oooh! Fiesole è più bella di quanto me la potessi immaginare». Scendiamo in piazza e mi dice: «Voglio fare un giro per i negozi, vedere le vetrine, la gente, le sedie appoggiate alle soglie».  «C’è un bel Teatro Romano» - dico io da cicerone scontato -  «No, no, preferisco fare due passi mi basta un giretto, così è bellissimo grazie».  Si ferma, si volta, guarda tutto con curiosità elargendo oh! senza parsimonia. «Pensa che tristezza se fossi morto senza mai essere stato a Fiesole». 
Questa la cronaca ufficiale dell’incontro con Zavattini, ma mi stavo dimenticando la prima cosa che mi ha detto appena saliti in macchina, un episodio che le era successo proprio la sera avanti, che riguarda il cappello che aveva in testa, la coppola, credo che si chiami così. «Te la devo raccontare -  mi fa - sai io tutte le sere faccio un giro nelle strade intorno a casa con la mia segretaria; sempre le stesse strade. Una volta di là, una volta di qua e così via. Ieri sera le dico che avevo il desiderio di arrivare a Piazza Bologna». 
- «Ma che ci andiamo a fare a Piazza Bologna signor Zavattini!». 
- «Te lo dico quando siamo là.  Arriviamo vicino alle 20 e i negozi stanno chiudendo».
- Allora Signor Zavattini mi vuole spiegare che cosa ci facciamo a piazza Bologna?
- «Devo comprare un cappello, ecco te l’ho detto!».
- «Ma Signor Zavattini non poteva dirmelo prima, glielo avrei detto che a Piazza Bologna si può trovare tutto fuorché i cappelli». 
«Ero imbarazzato, ma non rassegnato; vedo all’angolo la UPIM ed entriamo. Gli altoparlanti stanno invitando le persone ad uscire perché è l’ora di chiudere: mi volto e vedo uno scaffale di cappelli. Li guardo, li tocco, e poi ecco... ce n’è uno proprio come lo volevo io. Questo. Uno solo, nota bene, ce ne fossero stati due non era la stessa cosa; lo prendo, pago, me lo metto in testa ed usciamo. Perfetto, n° 59 la mia misura, che è anche difficile a trovarsi. Sono felice, la mia segretaria c’è rimasta male dopo quello che aveva detto prima, capirai le donne sono orgogliose. Questa vicenda mi ha colpito enormemente. Credo di avere avuto come un’ispirazione. Pensa, Upim 59, non è meraviglioso?».
Che bel titolo per un racconto, pensai io.

Paolo della Bella
(Fiesole Democratica ottobre 1983)
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